La conoscenza può essere definita come la consapevolezza di aver compreso la verità di un fatto o di un concetto.
Il suo studio è affidato alla gnoseologia, disciplina filosofica che analizza i fondamenti, i limiti e la validità della conoscenza umana, intesa come rapporto tra il soggetto che conosce e l’oggetto conosciuto. Questo approccio si è consolidato soprattutto in età moderna, grazie alla riflessione filosofica di Kant.
È utile notare che, nella tradizione anglosassone, lo studio della conoscenza viene indicato prevalentemente con il termine epistemology. In Italia, invece, "epistemologia" ha un significato più specifico: si riferisce alla parte della gnoseologia che si occupa della conoscenza scientifica, o più precisamente, alla filosofia della scienza.
Il pensiero filosofico classico ha distinto tra due forme fondamentali di conoscenza: l’opinione (dóxa) e la scienza (epistéme), differenziandole in base al loro valore di verità. I filosofi greci ritenevano l’opinione, fondata sull’esperienza sensibile, instabile e ingannevole, e perciò inadatta a offrire un sapere solido. Al contrario, la scienza, radicata nella ragione, veniva considerata la forma autentica di conoscenza, certa e incorruttibile.
Parmenide fu tra i primi a svalutare i sensi come fonte di sapere, sostenendo che la conoscenza autentica può scaturire solo dalla ragione. Tuttavia, questo sapere risultava astratto e non oggettivabile: secondo Parmenide, dell’Essere si può dire soltanto che "è", senza aggiunte. La sua gnoseologia resta così subordinata all’ontologia, ovvero alla dimensione immutabile dell’essere.
Con i sofisti si riaffermò una concezione soggettiva della conoscenza, basata sulla dóxa e sul dialogo eristico, svincolato dalla ricerca della verità. Socrate, invece, fu il primo a porre in termini radicali il problema della conoscenza: che cosa sappiamo davvero? Chi è veramente sapiente? Per lui, il sapere non si trasmette dall’esterno, ma si risveglia dentro l’anima. Il maestro, dunque, non insegna, ma aiuta l’allievo a "partorire" la verità già presente in sé: questa è l’arte della maieutica.
Platone riprese l’eredità di Socrate e Parmenide, ma riconobbe anche un ruolo positivo all’esperienza sensibile, che per lui funge da stimolo al ricordo delle Idee. Queste forme universali, eterne e immutabili, sono alla base della realtà e della conoscenza. Conoscere, dunque, è ricordare ciò che l’anima ha già visto prima della nascita: il sapere è innato e si risveglia per intuizione, non attraverso la dimostrazione logica.
Aristotele sistematizzò il processo conoscitivo in modo più rigoroso. Pur riconoscendo valore all’esperienza sensibile, sottolineò il ruolo attivo dell’intelletto, capace di astrarre l’universale dalle percezioni particolari. Egli individuò diversi livelli del conoscere: dalla semplice sensazione fino all’intuizione intellettuale, che coglie l’essenza delle cose. Conoscere, per Aristotele, significa "astrarre" l’universale dal concreto.
Fu anche il fondatore della logica formale, basata sul sillogismo deduttivo, che procede dall’universale al particolare. Tuttavia, poiché i princìpi primi non possono essere dedotti, la loro validità va fondata sull’intuizione intellettiva, introdotta attraverso l’induzione (epagoghé). Va però chiarito che per Aristotele l’induzione non è una procedura logica autonoma – come sarà invece nell’epistemologia moderna – ma solo un momento preparatorio all’intuizione dell’universale. La sua logica, infatti, è esclusivamente deduttiva:
«[…] principio di tutto è l’essenza: dall’essenza, infatti, partono i sillogismi.»
Nel Medioevo la gnoseologia di ispirazione platonica rimase sostanzialmente invariata, ma assunse una forte connotazione mistica e contemplativa, soprattutto grazie all'influenza del neoplatonismo. Per i neoplatonici, la epistème – la conoscenza autentica – si colloca al di sopra non solo della ragione, ma anche dell’intuizione. In filosofi come Plotino e Agostino, solo attraverso l’estasi è possibile unirsi all’Uno, principio supremo e ineffabile della realtà. Così, come in Parmenide, torna l’idea di un Essere ineffabile, che non può essere descritto con precisione concettuale.
L’unica forma di sapere che i neoplatonici ammettono in relazione al divino è la cosiddetta teologia negativa: un approccio conoscitivo che non afferma ciò che Dio è, ma procede per via di negazioni, dicendo piuttosto ciò che Dio non è.
Anche l’impianto gnoseologico aristotelico rimase centrale durante tutto il Medioevo, soprattutto grazie a Tommaso d’Aquino, che ne offrì una rielaborazione profonda. Per Tommaso, la conoscenza si fonda sulla corrispondenza tra intelletto e realtà: si conosce il vero quando la struttura della mente si conforma a quella dell’oggetto conosciuto. Questa concezione prende il nome di realismo moderato e si opponeva al nominalismo, che negava un fondamento reale agli universali, considerandoli semplici nomi privi di esistenza autonoma.
Platonismo e aristotelismo, pur avendo posto le basi della gnoseologia delineandone tanto i fondamenti quanto i limiti – il primo facendo leva sul sapere innato e introspettivo, il secondo sul sapere empirico – hanno dato origine a due grandi tradizioni che, sebbene inizialmente affini, nell’età moderna si sono progressivamente differenziate.
Da una parte si colloca Cartesio, che riprende l’innatismo platonico ma lo rielabora in un sistema gnoseologico autonomo, fondato sulla capacità della ragione di dedurre il vero a priori. Con lui la gnoseologia, che in Platone era un mezzo per accedere all’Essere, diventa il fine della filosofia stessa: ora è l’Essere a dipendere dalla conoscenza. Solo ciò che è chiaro, distinto e oggettivabile ha valore conoscitivo. Su questa base Cartesio inaugura il razionalismo, corrente che privilegia la ragione come unica fonte di verità. Tuttavia, all’interno dello stesso razionalismo, Spinoza rivaluterà l’intuizione immediata, considerandola superiore alla ragione discorsiva e restituendo alla Sostanza il principio della sua intelligibilità.
All’opposto, in Inghilterra si sviluppa una corrente che attribuisce all’esperienza sensibile la sola origine della conoscenza: l’empirismo. I suoi precursori furono Francesco Bacone e Thomas Hobbes, mentre tra i principali esponenti figurano John Locke, George Berkeley e David Hume. L’empirismo si basa su due assunti fondamentali:
- Verificabilità: si può conoscere solo ciò che è sperimentalmente verificabile; il resto è privo di valore conoscitivo o oggettivo.
- Meccanicismo: tutti i fenomeni, inclusa la conoscenza, avvengono secondo leggi causali meccaniche.
Questa concezione è particolarmente evidente in Hobbes, secondo cui la mente è una tabula rasa alla nascita, priva di idee innate, e viene progressivamente modellata dalle impressioni sensoriali.
A criticare questa visione sarà dapprima Leibniz, che riafferma la presenza di idee innate, ma si distacca anche da Cartesio, sostenendo che non tutte le idee sono coscienti: molte operano a livello inconscio.
Sarà poi Kant a tentare una sintesi tra empirismo e razionalismo. Egli propone una "rivoluzione copernicana" in filosofia, affermando che non è la mente a conformarsi al mondo, ma il mondo fenomenico ad apparire secondo le strutture della mente. La conoscenza, per Kant, è possibile solo grazie all’interazione tra:
- a priori: le categorie mentali che strutturano l’esperienza;
- a posteriori: i dati forniti dai sensi.
Così, la conoscenza non è né puramente empirica né interamente razionale, ma nasce dalla cooperazione tra sensibilità e intelletto.
Per Kant, inoltre, conoscere non significa semplicemente accumulare nozioni, ma collegare criticamente le informazioni in modo consapevole. La conoscenza è quindi una forma attiva di organizzazione del reale.
Dopo Kant, con la nascita dell'idealismo tedesco la gnoseologia sembrò prendere il sopravvento sull'ontologia, anche se in Fichte e Schelling queste due discipline si mantengono pur sempre su un livello paritario, poiché l'Idea da cui essi fanno scaturire il reale è coglibile ancora soltanto con un atto intuitivo (assimilabile all'Uno neoplatonico).
Sarà con Hegel che l'ontologia risulterà definitivamente assorbita dalla Gnoseologia. Hegel infatti costruì un sistema Logico che aveva la pretesa di essere anche ontologico. Le categorie conoscitive, che in Kant erano puramente "formali", diventano insieme "forma e contenuto": sono cioè categorie logiche-ontologiche. Hegel si trova quindi agli antipodi di Parmenide e Plotino: la conoscenza per lui non avviene a livello immediato e intuitivo, ma è il frutto di una mediazione razionale, è il risultato cioè di un processo con cui la ragione arriva a dedurre da sé tutta la realtà. Fu l'apoteosi della gnoseologia.
Solo nel Novecento Heidegger cercò di ridare la supremazia all'ontologia, affermando che l'Essere non può mai essere ridotto ad oggetto, perché esso sempre ci trascende. Presumere di poterlo dedurre razionalmente, dandogli un predicato, è stato l'errore fondamentale della metafisica occidentale.
Ma la gnoseologia era giunta ormai ad un punto di svolta, presumendo finalmente di trovare nel sapere scientifico quella garanzia di certezza e oggettività che era stata a lungo inseguita dalla filosofia; e d'altro lato separava nettamente questo sapere dai contenuti della metafisica, a cui Kant per primo aveva negato quelle caratteristiche che ai suoi occhi apparivano come la chiave di successo della fisica e della scienza moderne. Per un verso il dibattito si è trasferito così in ambito strettamente epistemologico, dando luogo al positivismo ottocentesco e quindi ai vari indirizzi della filosofia analitica, sostanzialmente eredi della tradizione empirista anglosassone; per altro verso permane l'ambito della cultura umanistica, artistica e letteraria, separato da quello scientifico da una profonda linea di demarcazione, radicato nell'Europa continentale, portatore delle istanze idealistiche, romantiche, e infine esistenzialiste.
Alla luce dei diversi approcci sviluppatisi nel corso della storia, la gnoseologia può essere articolata in varie correnti, spesso tra loro incompatibili. Ciascuna interpreta in modo differente il rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza, nonché il ruolo della ragione, dell’esperienza e della realtà. Le principali branche sono:
Realismo: sostiene che la realtà esiste indipendentemente dal soggetto conoscente. Nella disputa medievale sugli universali, il realismo fu associato ad Aristotele, ma in certi aspetti anche alla teoria platonica delle Idee.
Nominalismo: nega che i concetti universali abbiano una realtà propria, considerandoli semplici nomi o etichette senza fondamento ontologico. Di conseguenza, anche i principi conoscitivi dell’intelletto non avrebbero valore oggettivo.
Empirismo: afferma che tutta la conoscenza deriva esclusivamente dall’esperienza sensibile. Nessuna idea sarebbe innata, ma tutte risulterebbero da impressioni ricevute attraverso i sensi.
Razionalismo: al contrario, ritiene che la ragione sia la fonte principale – o addirittura esclusiva – della conoscenza, in grado di dedurre verità universali a priori, indipendentemente dall’esperienza.
Criticismo: si pone come mediazione tra empirismo e razionalismo. La conoscenza, secondo questa prospettiva (sviluppata da Kant), nasce dalla cooperazione tra sensibilità e intelletto: la ragione ha un ruolo attivo, ma necessita dei dati empirici per operare.
Idealismo: in opposizione al realismo, sostiene che la realtà esterna non possieda un’esistenza autonoma, ma sia il prodotto o il riflesso dell’attività conoscitiva del soggetto.
Scetticismo: dubita della possibilità di giungere a una conoscenza certa. Secondo i suoi sostenitori, è impossibile raggiungere la verità in modo definitivo e universale.
Dogmatismo: si oppone allo scetticismo, affermando che esiste una corrispondenza reale tra le strutture della mente umana e quelle della realtà, rendendo possibile una conoscenza vera e certa.
Fenomenologia: si concentra sulle modalità con cui il soggetto si rapporta intenzionalmente agli oggetti dell’esperienza. L'accento è posto sul vissuto soggettivo e non sull'effettiva esistenza oggettiva degli enti.
Costruttivismo: concepisce la realtà come il risultato delle strutture cognitive del soggetto. Conoscere non significa scoprire un mondo “già fatto”, ma costruirlo attraverso i propri schemi mentali.
Psicologismo: riduce la conoscenza, e persino le leggi della logica e della matematica, a fenomeni psicologici soggettivi. Ogni atto conoscitivo, in questa prospettiva, è espressione della psiche individuale.
Ritengo il concetto di verità (epistème) assai sfuggevole e labile di inganni, poiché ogni tentativo definitorio - pur mosso dal rigore del pensiero - si espone al rischio di fissare l’infissabile, di circoscrivere ciò che per natura si sottrae al confine. La verità si presenta come un orizzonte in fuga: si mostra per frammenti, si cela nelle pieghe del linguaggio, si plasma secondo prospettive, e non di rado si traveste da opinione condivisa o da artificio retorico. Laddove si cerca la definizione, spesso si ottiene solo una delimitazione provvisoria, un gesto ermeneutico che dice più del soggetto che definisce che dell'oggetto definito. Un parziale conforto si può forse trovare nelle verità logico-matematiche che, sebbene spesso elevate ad assoluti ontologici, restano pur sempre derivati artificiali della percezione umana dell’universo e dei suoi meccanismi. Esse appaiono come strutture rigorose, quasi eterne, ma non sono che la cristallizzazione e celebrazione della finitezza della visione umana in relazione all'infinità incommensurabile di ciò che non è visibile, misurabile o percepibile.
Si tratta di costrutti assai utili, giacché rispecchiano fedelmente il meccanismo con cui noi percepiamo che l’universo operi. Il numero due è maggiore di uno perché, in un mondo fatto di cose tangibili, due banane sono più di una: l’evidenza empirica fonda l’intuizione, l’intuizione dà forma all’astrazione, e l’astrazione si cristallizza nella formalizzazione. Non si tratta di un processo sbagliato - anzi, è forse l’unico che ci sia possibile. Ma proprio per questo, non dovremmo confondere l’utilità interna del sistema con una sua necessaria aderenza ontologica alla realtà in sé. Le strutture che costruiamo riflettono più il modo in cui noi pensiamo che non la natura intrinseca di ciò che è. Ciò che un tempo ci sembrava assoluto (come il tempo e lo spazio) oggi non lo è. Alcune cose sono eterne semplicemente perché non possiamo osservare altrimenti, non perché sia necessariamente così.
P.S. Anche nell'ultima frase incappiamo in un guaio definitorio, cosa significa essere necessariamente così? Se le nostre osservazioni aderiscono con la nostra conoscenza, possiamo definire tale caso come chiuso? È utile spingersi oltre?